lunedì 5 dicembre 2011

IN MEMORIA DELLA DOTTORESSA EUGENIA SACERDOTE MONTALCINI

Cari Amici de La Voce,
 domenica scorsa è venuta a mancare la dottoressa Eugenia Sacerdote Montalcini, di anni 101, prima cugina di Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la Medicina.
Ho avuto l'onore ed il piacere di conoscere personalmente la dott.ssa Sacerdote in occasione dell’intervista concessami tempo fa in esclusiva per i lettori de La Voce.
Quello che segue è il testo integrale di quell’intervista, dalla quale emerge per intero lo spessore di una donna eccezionale, che ha messo tutta la sua esistenza al servizio della scienza e dell'umanità. 
                                                                                                     Josè Rodolfo Maragò (ARGENTINA)
dott.ssa Eugenia Sacerdote
Grazie a Hitler ho imparato la mia professione”, così esordisce la dottoressa Eugenia Sacerdote Montalcini, “giovane” ricercatrice di 97 anni.
 “A causa delle leggi antisemite, Berta Mayer fu costretta ad abbandonare la Germania e continuare le sue ricerche in Italia. Fu lei ad insegnarmi le tecniche di lavorazione sulle cellule vive”.
Così ci chiarisce gli inizi della sua carriera questa donna dall’eterno sorriso, che racconta in maniera lucida le vicende della sua vita straordinaria, interamente dedicata alla scienza.
Prima cugina del Nobel per la Medicina Rita Levi Montalcini (le loro mamme erano sorelle), con la quale ancora oggi si sente ogni sabato, Eugenia Sacerdote Montalcini perse il padre, malato di leucemia, quando ancora aveva 9 anni.
Con mia cugina Rita ed altre due ragazze iniziammo gli studi di Medicina presso l’Università di Torino. Eravamo le uniche donne  fra 500 uomini. Per un anno intero avevamo studiato dodici ore al giorno per imparare greco, latino, matematica e fisica, la cui perfetta conoscenza era indispensabile  per accedere all’università”.
Laureata con il massimo dei voti e lode, Eugenia sostenne l’esame di stato all’Università di Parma, cimentandosi sul caso pratico di un paziente del quale, con il solo ausilio di analisi e radiografia, doveva formulare la diagnosi ed individuare la cura adatta. “Meno male che il paziente era molto intelligente e la sua collaborazione mi è stata davvero di grande aiuto”, confessa oggi con grande umiltà.
Sposata con Maurizio Lustig, un ingegnere della Pirelli, ha avuto tre figli. Nel 1938, a causa delle leggi razziali varate dal governo fascista, le fu proibito di esercitare la professione medica.
L’anno successivo, il marito venne trasferito in Argentina, dove la Pirelli pensava di aprire uno stabilimento per la fusione del rame. Ma lo scoppio della guerra complicò ulteriormente le cose, perché le attrezzature necessarie rimasero bloccate in Italia e la Pirelli spostò l’ing. Lustig a San Paolo, in Brasile, dove rimase con la moglie e la primogenita Livia per un anno e mezzo prima di fare ritorno in Argentina.
Dottoressa Sacerdote, come iniziò la sua avventura di ricercatrice in Argentina?
Uno dei miei docenti di Torino, il professore Segrè, mi aveva raccomandato dal dottore De Robertis, che prestava servizio presso la cattedra dell’Istituto di Istologia. Fu lui che nell’offrirmi un tavolino ed una sedia mi disse: “Se ce la fa a lavorare in queste condizioni, faccia pure!”. Per i primi esperimenti sulle cellule vive, mi servivo di galline che compravo al mercato e riuscivo ad introdurre nell’istituto con la complicità del  portiere. Lui mi aiutava anche a prelevare il sangue dall’animale, ed io per riconoscenza gli regalavo la gallina.
Era pagata per il suo lavoro?
Non avevo un budget, ma il direttore mi permetteva di attingere qualcosa dai fondi destinati alla sostituzione dei vetri rotti. Per questa ragione prestavo molta attenzione affinchè i vetri non si rompessero e potessi così prendere la somma che avanzava.
Lei intanto continuava ad avere rapporti con Berta Mayer, nel frattempo trasferitasi in Brasile?
Eugenia Sacerdote e Rita Levi-Montalcini (anni 1930 c.a)
foto: gravità zero
Si, lei se ne è andò dall’Italia in Brasile, per sfuggire ancora una volta alle leggi antisemite. Era così brava che il Dott. Chagas le offrì un contratto, presso il suo prestigiosissimo istituto di ricerca a Rio de Janeiro. Ci siamo viste tante volte a Rio. Di li a poco, il governo peronista, per divergenze politiche, licenziò il dottore Houssay, già premio Nobel per la Medicina, e tutto il suo gruppo di ricercatori. Ed io rimasi di nuovo sola nella cattedra. Venni allora convocata dal Direttore dell’Istituto Roffo, ospedale oncologico sempre dipendente dell’Università di Buenos Aires, per fare ricerca sulle cellule giganti. Per me si trattò quindi
di un semplice trasferimento da una struttura all’altra della stessa università.
Riuscì finalmente ad ottenere un laboratorio tutto suo per la ricerca?
Magari! In un primo momento mi mandarono in un laboratorio di analisi, e successivamente al museo, con i vapori della formalina che ammazzavano i tessuti e le cellule su cui io lavoravo. Mi lamentai di questa situazione con il direttore, che mi concesse il salone della vecchia biblioteca. Io stessa provvidi a ripulirlo, con l’aiuto di alcuni studenti. Di grande aiuto mi fu anche una giovane polacca, assunta come donna di servizio, che si dimostrava molto interessata al nostro lavoro, nonostante avesse frequentato solo la scuola elementare. Presi a cuore la sua formazione, e le feci frequentare diversi corsi e seminari, tanto che Caterina divenne, in breve tempo, un tecnico di laboratorio eccezionale. Lei ancora oggi, pur essendo ormai ultraottantenne, presta la propria qualificata consulenza ai giovani ricercatori.
Come proseguì la sua carriera accademica?
Nel 1950 il dott. Parodi, direttore del Dipartimento di Virologia dell’Istituto Malbrán (corrispondente al Centro Nazionale della Ricerche sulle Malattie), mi chiamò per lavorare con lui. Ma da li a poco si trasferì in Uruguay, dove venne nominato ministro della Sanità. Rimasi quindi di nuovo sola a capo del dipartimento. La mia giornata tipo si divideva tra il Roffo ed il Malbrán, con l’intermezzo della pausa  pranzo a casa per assistere i bambini.

Eugenia Sacerdote e Rita Levi-Montalcini,
nell'album dei laureandi dell'Università di Torino (A.A. 1936-37)
foto: gravità zero

Sul finire del 1953 scoppiò una grave epidemia di poliomielite. Io mi trovavo a Pinamar, dove mi ero recata per un periodo di villeggiatura, ed ero intenta a disfare i bagagli quando mi arrivò un telegramma firmato dal ministro della Salute (il leggendario Dott. Ramón Carrillo, considerato il più grande medico sanitario della storia argentina), con il quale venivo incaricata sin da subito a lavorare nella diagnosi di questa crudele malattia. Il virus della polio si sviluppa solo nelle cellule della scimmia indiana Rhesus o nelle cellule umane. Di conseguenza, per noi ricercatori argentini non c’era altra possibilità che lavorare sulle cellule umane. E così, tutte le mattine, con la mia macchina giravo tutti gli ospedali della città cercando di recuperare i resti degli aborti spontanei e naturali, che conservavo in  fiaschi di diverse misure con soluzione fisiologica. Grande era infatti la necessità di disporre di tessuti vivi per infettarli con i prelievi fatti a quei pazienti che si sospettava avessero contratto la polio, per poter formulare l’esatta diagnosi nelle ventiquattro ore. Si trattava di operazioni molto delicate e grande era la paura di contrarre pericolose infezioni, tanto che preferì  trasferire i figli in Uruguay, presso una mia cugina.
Di li a poco, l’Organizzazione Mondiale della Sanità mi inserì in un gruppo di ricercatori che operava negli Stati Uniti, anche se loro, non dovendo fronteggiare un’emergenza come noi in Argentina, si limitavano ancora a sperimentare il vaccino sulle scimmie. Lavorai ad Atlanta, Filadelfia e Washington per poi trasferirmi a Montreal, in Canada. Tre mesi dopo rientravo in Argentina, dove la situazione sanitaria era ancora molto grave. Qui, dopo essermi in precedenza consultata telefonicamente con Renato Dulbecco (di origine calabrese e futuro Nobel per la Medicina), già mio compagno di studi a Torino, mi assunsi l’enorme responsabilità di raccomandare al ministro la vaccinazione massiva sulle persone. Per dare l’esempio e rassicurare l’opinione pubblica, io stessa mi vaccinai insieme ai miei figli. La notizia ebbe grande risalto sui giornali argentini ed ottenemmo l’effetto voluto: la gente si recò volontariamente per sottoporsi alla vaccinazione che da quel momento divenne obbligatoria per tutti.   
Fino a quando continuò a lavorare presso l’Istituto Malbrán?
Non per molto. Dopo la caduta di Perón, ci fu uno sciopero contro il governo. Io avevo necessità di entrare in istituto per completare il lavoro su un presunto caso di polio, ma me lo impedivano. Insistetti e per reazione mi lanciarono contro uno scatolone che mi danneggiò la macchina e mi fece male ai piedi. Il giorno dopo mi ero già dimessa.
Fu questo episodio a sancire la fine del suo lavoro accademico?
Non ancora. Nel ’58, dopo l’ascesa del presidente Frondizi, un suo fratello, Risieri Frondizi, rettore dell’Università di Buenos Aires, bandì  un concorso per la cattedra di Biologia Cellulare che vinsi io. Lavorai per ben otto anni, quando si diffuse la voce di un imminente colpo di stato. Un giorno il rettore ci chiese di rimanere nell’università per una riunione dei professori. Avevano scollegato le linee telefoniche, ed io uscii solo un attimo per recarmi in un bar vicino da dove telefonare ai mie familiari per avvisarli che avrei ritardato il rientro. Nel tornare, vidi da lontano alcuni poliziotti che trascinavano fuori il rettore, il vice rettore e tantissimi professori. Ovviamente il giorno dopo mi sono dimessa assieme a tutti i miei colleghi di facoltà. Da quel momento continuai a lavorare solo al Roffo e nel Conicet dalla sua creazione nel ’61 (Consiglio Nazionale per le Ricerche Scientifiche e Tecniche, in spagnolo) dove ho prestato la mia collaborazione dalla sua creazione nel 1961 fino al pensionamento.
La dottoressa Sacerdote è molto restia a parlare dei tantissimi riconoscimenti scientifici avuti in campo internazionale per la sua attività di ricerca. A noi appare comunque opportuno ricordarne almeno alcuni: 1967 - Premio Donna dell’anno nelle Scienze; 1977, Premio dell’Accademia Nazionale di Medicina; 1978, Premio della Società di Chirurgia Toracica; 1979, Premio della Societá di Citologia; 1983, Diploma al merito della Fondazione Konex; 1984, Premio Lega Argentina contro il Cancro; 1988, Premio Donna dell’Anno Fondazione Alicia Moreau de Justo; 1991, Premio Juan Manuel Estrada; 1991, Premio Rotary Club Internacional; 1992, Premio Hipócrates di Medicina; 2003, Menzione speciale in Sciencia e Tecnología della Fondazione Konex; 2004, Cittadina Illustre della Cittá di Buenos Aires.
Particolarissimo è poi il riconoscimento assegnatole dalla società che gestisce uno dei trasporti urbani. Raggiunta l’età di 85 anni, la dottoressa Sacerdote non poteva più guidare l’auto e si recava quotidianamente al lavoro con un pullman di linea. In poco tempo tutti gli autisti impararono a conoscerla bene. Un giorno venne convocata dall’azienda trasporti al capolinea dove, al suo arrivo, la dottoressa Sacerdote trovò una gradita quanto inaspettata sorpresa: avevano preparato in suo onore un grande ricevimento cui parteciparono tutti gli autisti e le rispettive famiglie. In quella occasione venne anche dichiarata “Passeggera Illustre della Linea 80” con l’emissione straordinaria, a suo nome, di un biglietto gratuito a vita. Con il trascorrere degli anni, anche il viaggio in pullman le venne difficile e dovette optare per un autonoleggiatore di origine libanese che lavorava nelle vicinanze del Roffo. Anche lui era molto affezionato alla dottoressa Sacerdote, tanto che non voleva essere pagato per portarla al lavoro.
Ancora oggi ogni pomeriggio c’è qualcuno che viene a  trovarla a casa per leggerle un libro poiché, a causa di un tumore e degli effetti collaterali delle cure somministratele, Eugenia Sacerdote ha perso quasi completamente la vista.
Se sono riuscita a vedere la faccia  dei miei tre figli e dei nove nipoti, altrettanto non ho potuto fare con i miei due pronipotini”, ci dice con amarezza, nell’unico momento in cui il suo volto si intristisce un pò.
Salvo poi ritornare sorridente, con quella contagiosa allegria che rende estremamente semplice e cordiale una donna che ha speso l’intera sua esistenza al servizio della scienza e dell’umanità.

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